Contributo di Sungur Savran, segretario del DIP (Partito Rivoluzionario Operaio), sulla situazione in Turchia
traduzione di:
- Tiziana Mantovani Dir. Naz. PCL
- Martina Giustelli Sez. di Arezzo
Lo sgombero di Gezi Park da parte della
polizia, la notte del 15 giugno, con l'ampio uso di gas lacrimogeni e
per la prima volta dei cannoni ad acqua arricchita con liquido
urticante, non ha spento il fuoco della ribellione in Turchia.
È vero, la rivolta che seguì l'espulsione e che ha portato a
manifestazioni per tutta la notte e l'occupazione delle piazze in
diversi quartieri di Istanbul e città di tutto il paese, fu di breve
durata. Ma dall'energia continua delle masse nascono nuove forme di
azione come gli “standing man”e “standing woman”, in cui alcune persone
stanno in piedi in silenzio per ore, in luoghi dove non sono consentite
manifestazioni. Questa forma di azione certamente isola gli individui
gli uni dagli altri, non è paragonabile alla chiarezza delle masse
manifestanti, e, quindi, è una modalità inferiore di protesta. Ma in
questo contesto specifico, dove era quasi impossibile organizzare
azioni in piazza Taksim, hanno annunciato il ritorno delle masse nel
luogo più conteso e hanno sollevato il morale del movimento, dopo la
battuta d'arresto causata dall'evacuazione (seguita, tra parentesi,
dallo sgombero delle piazze occupate in altre città).
Molto più significativa però è stata la convocazione di ciò che è
stato variamente chiamato “forum” o “assemblee popolari” tutte le notti
nei parchi in tutta Istanbul. Questa è una diretta applicazione dello
slogan - “Taksim è ovunque, dappertutto resistenza!” - Una parola
d'ordine centrale della ribellione fin dalla sua nascita, ora messa in
pratica!
In questi forum sis svolgono dibattiti con modalità democratiche,
che durano fino alle ore piccole del mattino, dibattiti attraverso i
quali il movimento di massa sta cercando di riorientarsi e impostare un
corso di azione per il futuro.
Che queste assemblee notturne abbiano dato alla ribellione una
nuova prospettiva di vita è stato confermato nella notte di lunedì 24
giugno, quando decine di migliaia di persone si sono riversate in un
parco di un quartiere centrale di Istanbul, protestando contro il
rilascio di un agente di polizia identificato in un video ampiamente
diffuso, come responsabile dell'uccisione a sangue freddo di un
manifestante ad Ankara. E le assemblee o forum si stanno ora diffondendo
ad altre città, tra cui Ankara, la capitale, e Izmir, terza città più
grande della Turchia, che si trova di fronte alla Grecia sul Mar Egeo.
Così la rivolta può aver subito una battuta d'arresto, ma è ancora
viva e vegeta. Come può avanzare e quale sarà la sua destinazione
finale, sono domande ancora aperte e soggette alle mosse delle diverse
forze all'interno del movimento. Ma una cosa è certa: più a lungo dura
questo movimento, più il governo dell'AKP di Tayyip Erdogan è
minacciato; un governo che sembrava incrollabile solo un mese fa, anche a
molta gente di sinistra.
La base del potere dell'AKP
Tale valutazione è stata, ovviamente, erronea. E' vero che da un
punto di vista strettamente elettoralista, l'AKP è stato fino a poco
tempo ancora prevalente rispetto a qualsiasi altra forza contendente. Ma
l'accumulo di battute d'arresto su diversi fronti aveva già iniziato a
minare la base di potere del governo. Per capire quello che stava
accadendo all'AKP anche prima dello scoppio della rivolta il 31 maggio,
prima di tutto è utile guardare più da vicino i fattori che hanno
determinato la forza dell'AKP nel decennio precedente in cui era al
potere.
Senza cercare di essere esaustivi, si può tentare di individuare
alcuni fattori significativi. Prima di questo, però, si dovrebbe parlare
di un altro fattore, di natura più strutturale e più difficilmente
modificabile nel breve periodo. Ci riferiamo alla natura eccezionale
della Turchia nel mondo islamico. Sotto Mustafa Kemal Ataturk, il
fondatore della repubblica, la Turchia ha adottato interamente le norme e
le forme legali, educative e culturali occidentali. Nessun altro paese
nel mondo islamico si è spinto così lontano nell'integrazione col mondo
occidentale. Ciò ha portato ad un regime in cui l'Islam è stato tenuto
sotto stretto controllo dallo stato, e le classi dirigenti del paese,
trascinando la piccola borghesia urbana nella loro scia, si sono
occidentalizzate senza limiti. Il risultato è stato che un sistema di
oppressione di classe e di sfruttamento è apparso alle masse
lavoratrici anche come un sistema di divorzio culturale tra ricchi e
poveri. E' in questo contesto che è emersa una nuova frazione islamista
della borghesia. Prima docilmente, sotto forma di un insieme subalterno
di capitalisti di medie dimensioni, prevalentemente al di fuori dei
grandi centri economici del paese. Ma dal 1980 in poi, essi stessi sono
diventati una componente del capitale finanziario, o in altre parole il
capitale monopolista della Turchia.
L'AKP è l'ultima espressione politica di questa ala della borghesia.
Abusando dell'identificazione ingannevole tra oppressione di classe e
divario culturale tra le classi dirigenti e le masse, la leadership
politica della borghesia islamista, con la sua cultura orientale e
l'approccio conservatore, ha un vantaggio contro i rappresentanti
dell'ala occidentale-laico. Erdogan, egli stesso un capitalista che si è
fatto da se con radici plebee, alla moltitudine dei poveri urbani e
delle campagne sembra “uno di loro”. Questo divario strutturale nella
società turca è stato interamente usato e abusato da Erdogan durante il
suo decennio al potere. Egli ha mantenuto in vita una politica di
polarizzazione sociale tra ciò che egli chiama “l'oligarchia” (insieme
con la cosiddetta “Lobby del tasso di interesse”), da un lato, e la
gente autenticamente turca e musulmana del paese, dall'altro. Questo è
un problema che è difficile da affrontare nel breve periodo e può essere
superato solo se la sinistra - in gran parte un ramo della secolare
tradizione kemalista dei movimenti progressisti borghesi – riesce a
sanare il divario culturale con le classi lavoratrici.
Ci sono, tuttavia, altre spiegazioni del motivo per cui l'AKP ha
tenuto per così tanto tempo, rispetto ai fragili governi di coalizione
degli anni 1990. Uno è di natura puramente tecnica. La soglia elettorale
del 10 per cento, per cui nessun partito che riceve meno di ciò, può
ottenere un seggio in parlamento, ha fatto il gioco del AKP. Nel corso
degli anni, l'elettorato dei piccoli partiti di destra ha scelto di
votare per l'AKP, portando il bottino dei suoi voti fino a più del 50
per cento nelle ultime elezioni nel 2011.
Un altro motivo è economico. La Turchia ha raggiunto un notevole
sviluppo economico sotto l'AKP. Con l'eccezione di un breve periodo in
seguito al fallimento di Lehman Brothers, quando la Turchia ha subito
una contrazione del PIL nell'ordine di circa il 5%, l'economia è
cresciuta rapidamente negli ultimi dieci anni, arrivando quasi ad un 10
per cento di crescita nel 2010 e nel 2011. In un certo senso questa
rapida ripresa è stata pura fortuna. La Turchia aveva già subito una
immensa crisi finanziaria ed economica nel 2001 e nel 2002, proprio
prima che l'AKP salisse al potere.
L’economia turca, ed in particolare il sistema bancario, sono stati
snelliti e disciplinati in risposta a quella crisi, così l’AKP ha
assunto il comando di un’economia che già era stata modernizzata per
soddisfare i requisiti della cosiddetta globalizzazione.
Ha poi cavalcato la cresta di una impressionante espansione
dell’economia mondiale fino al 2007. E poiché in un certo senso la
Turchia aveva già vissuto la sua crisi bancaria nel 2001, il sistema
finanziario ha dimostrato di essere estremamente resistente nel
2008-2009 e la recessione turca ha avuto vita breve.
Benchè il successo economico sia stato soprattutto l’eredità di un
periodo precedente, bisogna riconoscere che, in quanto partito dei
capitalisti, l’AKP ha raggiunto quanto i precedenti governi di
coalizione non erano stati in grado di fare prima di esso. Poiché
l’elevato tasso di crescita si è basato anche sullo sfruttamento estremo
della classe lavoratrice e contadina. Sulla base del suo forte
appoggio, l’AKP ha attaccato le conquiste stabilite della classe
lavoratrice in tutti i settori ed ha seguito una politica di
impoverimento dei piccoli agricoltori. E’ riuscito a far ciò grazie ad
una combinazione di tattiche divide et impera, guadagnando attivamente
il controllo su una parte del movimento sindacale, attaccando altri
sindacati ferocemente.
Un terzo fattore del successo di Erdogan è stato la sua politica
estera. Ha percorso una linea sottile tra la lealtà agli obblighi
tradizionali delle classi dominanti turche,l’alleanza occidentale, ed il
mondo islamico ed i regimi e movimenti islamisti. Quest’ultima
politica gli ha fatto guadagnare un importante prestigio con quello che i
commentatori occidentali chiamano “la via araba”.
Un altro fattore significativo è stato l’alleanza che Erdogan ha
stipulato con la confraternita dell’ambizioso Imam Fethullah Gulen, che
presiede un potente impero di scuole missionarie in tutto il mondo, ed
un’altrettanto potente rete sociale, economica e culturale nella stessa
Turchia.
Un ultimo fattore è la relativa calma che Erdogan ha raggiunto su
fronte curdo. Questo è dovuto principalmente al fatto che Öcalan, il
leader della guerriglia curda, è stato catturato dalla Cia e
riconsegnato allo stato turco nel 1999. Così Erdogan ha avuto fortuna
anche in quell’area.
La virata della marea
Tutti questi fattori di forza avevano già iniziato ad indebolirsi
prima dell’eruzione della rivolta alla fine di maggio. Per prima cosa la
crescita economica era già scesa al 2% lo scorso anno. Le vulnerabilità
dell’economia turca ora si iniziano a sentire, specialmente il problema
strutturale dell’attuale deficit e l’altissimo e crescente
indebitamento del settore privato nella valuta estera. La recente
dichiarazione di Bernanke, presidente della Federal Reserve, riguardo la
tempistica di una graduale eliminazione del Quantitative Easing, ha
portato, oltre alla perdita di fiducia negli ambienti capitalistici a
causa della rivolta, alla grave volatilità dei mercati finanziari
turchi. La Turchia è ora di nuovo un anello debole nell’economia
mondiale.
La politica estera del governo ha ricevuto colpi successivi. La
politica del “problema zero con i vicini” intrapresa dal ministro degli
esteri Ahmet Davutoglu è nel caos. La Turchia sta seguendo una politica
di ostilità con almeno tre dei suoi vicini occidentali e meridionali;
per cominciare la Siria, ma anche Iran ed Iraq. Nel caso della Siria, la
facile aspettativa del governo Erdogan di una rapida caduta del regime
di Assad si è rivelata sbagliata, con serie conseguenze per la Turchia.
Il recente assassinio di almeno 52 persone a Reyhanli, un paese vicino
al confine siriano, causato dall’esplosione di un paio di bombe, ed il
fatto che, durante la sua visita a Washington a metà maggio, lo zelo di
Erdogan nel trattare militarmente con la Siria sia stato smorzato da
Obama, hanno causato una significativa perdita di prestigio da parte del
governo.
Anche le controversie con Fethullah Gulen sono aumentate dal 2010,
quando l'Imam ha ripudiato la flottiglia guidata dalla Mavi Marmara,
schierandosi con Israele e sconvolgendo molte fila di islamisti. Altre
questioni hanno messo su rotte distinte le due potenti figure.
Nonostante il suo islamismo, Gulen si è distinto per uno stile politico
estremamente pragmatico e flessibile, e potrebbe, nelle svariate
occasioni elettorali del 2014, allearsi con forze politiche più laiche.
Le uniche fonti di forza che rimangono ad Erdogan sono la sua
popolarità negli strati più conservatori della popolazione – un
beneficio quasi strutturale – e la sua politica curda di una soluzione
pacifica. Benchè quella politica sia avvolta in un mistero tale da far
venire il sospetto possa crollare da un momento all’altro, per ora
almeno è questa politica che gli ha dato respiro durante la ribellione,
visto che il movimento curdo si è tenuto in disparte per paura di
turbare il fragile “processo di pace”.
Il destino di Erdogan in gioco
Questo sotterraneo spostamento del terreno sotto i piedi di Erdogan
ha in parte reso possibile la recente rivolta, che ha poi inferto un
duro colpo al suo potere. Egli è ora ai ferri corti con i suoi
protettori imperialisti; ha visto la ripresa del conflitto con l’ala
filo occidentale della borghesia turca; ed ha persino incontrato
spaccature nel suo partito di governo.
Abdullah Gul, l’attuale presidente della repubblica, è ora un serio
avversario per le prossime elezioni presidenziali, palesemente sostenuto
dal CHP, il membro turco della erroneamente chiamata Internazionale
Socialista. Se, come è probabile, la confraternita Gulen si schiererà
dalla parte di Gul, Erdogan dovrà affrontare la prima seria sfida
elettorale da quando è salito al potere.
Comunque, non sta semplicemente affrontando un indebolimento
elettorale. Se la rivolta dovesse prolungarsi, e forse divampare di
nuovo, per Erdogan sarà difficile persino rimanere al potere prima delle
elezioni. Dietro la facciata dell’irremovibile ed imperturbabile forte
uomo della Turchia, si avverte l’erosione del potere e del prestigio
come risultato di una possente lotta delle masse. Non è che l’AKP sia
condannato a cadere. La sorte di Erdogan, così come la nostra, dipende
dal futuro del movimento e la nostra abilità e capacità nello spingerlo
oltre. Non c’è spazio per la benchè minima disperazione.
Il DIP prosegue nella sua lotta
Il DIP, sezione turca del Coordinamento per la Rifondazione della
Quarta Internazionale, ha convogliato le sue forze nella costruzione di
quello che noi chiamiamo il “Movimento dei Parchi”. Ad Istanbul, e in
ogni città in cui questa forma di azione si sta diffondendo, noi
partecipiamo a forum che si tengono ogni notte nei parchi in diverse
parti della città. Ed interveniamo con la proposta di tre obiettivi
interconnessi. Uno è definire una nuova serie di richieste immediate per
il movimento di massa, che è rimasto senza un orientamento generale da
quando la prima leadership, chiamata la Piattaforma di Solidarietà di
Taksim, ha rinnegato le sue richieste originarie a favore della
dispersione del movimento ed in attesa delle volontà governo Erdogan di
fare un referendum su Gezi Park. Questa mite leadership è davvero
capitolata di fronte al governo, per paura che la ribellione diventasse
incontrollabile. Ed è stata sostenuta, in ciò, da una grande varietà di
movimenti di sinistra, spaziando dal cosiddetto Partito Comunista della
Turchia, a quei partiti che sono divenuti un’appendice del movimento
curdo. A questo punto il movimento di massa è totalmente confuso ed
ascolta proposte da indipendenti per rivendicazioni stravaganti che
vanno dalla creazione di cucine vegane all’organizzare forme di
commercio socialmente responsabili per opporsi alla propagazione delle
grandi catene di vendita. Il DIP è chiaro nella sua lista di
rivendicazioni immediate: abbandonare tutti i piani riguardo a Taksim,
non solo quelli su Gezi Park, ma anche quelli che mirano a chiudere la
piazza alle future manifestazioni di massa; far processare e punire
tutti coloro che sono politicamente e praticamente responsabili per la
brutalità poliziesca e gli omicidi avvenuti di recente; liberare tutti
coloro che sono stati imprigionati durante la ribellione.
L’altro aspetto riguarda il metodo da adottare per avanzare nella
promozione delle rivendicazioni del movimento. I forum o le assemblee
popolari sono minacciati dalla prospettiva di degenerare in chiacchiere
da negozio dopo un po’. Così il DIP propone che essi diventino la base
per l’organizzazione di una nuova leadership per il movimento. Siamo per
l’elezione di rappresentanti di ogni assemblea che si riuniscano a
livello cittadino. Ciò porterebbe alla convocazione di un organismo di
rappresentanza a livello nazionale, che spingerebbe non solo
all’accettazione delle rivendicazioni da parte del governo, ma agirebbe
anche come la leadership di una nuova fase del movimento nel decidere
che azioni intraprendere.
Segnaliamo la contraddizione che ha afflitto il movimento durante il
primo periodo, dall’eruzione della rivolta il 31 maggio,
all’evacuazione di Gezi Park (e di conseguenza di altri parchi in altre
città) il 15 giugno. Ciò deriva dal fatto che la cosiddetta leadership
del movimento era composta da figure e rappresentanti che erano un
cimelio del periodo precedente alla rivolta e quindi non erano in grado
di rappresentare l’ebollizione e l’effervescenza create dalla rivolta
stessa. Perciò diciamo “eleggere una leadership che rappresenti lo
spirito della rivolta!”.
Infine, il terzo aspetto del nostro intervento nel movimento di
massa, il più importante e la nostra linea strategica fin dai primi
inizi del movimento, mira a infondere in esso la consapevolezza di come
sia strategicamente importante una svolta del movimento verso la classe
lavoratrice dell’industria, che non è ancora approdata al movimento in
maniera organizzata, con richieste e forme di lotta ad essa peculiari.
Queste sono le istanze immediate che hanno lo scopo di servire alla
ripresa del movimento dopo la battuta d’arresto del 15 giugno. In ogni
occasione nella quale il movimento acquista fiducia in se stesso, come
le manifestazioni di protesta per il rilascio dell’ agente di polizia
che ha ucciso un manifestante, noi chiediamo le dimissioni del governo. E
non tralasciamo mai il riferimento al nostro obiettivo a lungo termine,
di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il DIP ha pubblicato un’edizione speciale del suo giornale e sta
organizzando un’assemblea ad Istanbul, con possibili riunioni successive
in altre città, per chi tra i ribelli vuole dare il meglio per
contribuire alla rinascita della rivolta ed impostarla su un percorso di
alleanza con la classe lavoratrice.
Il compito è arduo, ma vale la pena e significherebbe un trionfo
reale per i rivoluzionari proletari. Questo è un percorso che potrebbe
portare alla rivoluzione permanente, in Turchia e non solo.
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI PER LA QUARTA INTERNAZIONALE