Molto
tempo prima che Renzi e il nuovo Partito Democratico appiccicassero, tra
l’altro impropriamente, una locuzione anglosassone sulle peggiori controriforme
europee in materia di lavoro degli ultimi vent’anni, dal blairismo all’Agenda
2000 della SPD, il Partito Comunista dei Lavoratori ha presentato il proprio
piano europeo per il lavoro.
Tra
le nostre rivendicazioni, avanziamo il diritto universale alla pensione di
vecchiaia al raggiungimento dei 60 anni di età, per donne e uomini, nativi e
migranti, con la possibilità di finestre anticipate per i lavori usuranti. A
questo punto, una folta schiera di professori liberali di economia e
sociologia, di governanti riformisti, di tecnocrati europei si affannano a
salire in cattedra per dispensarci il loro preteso realismo, pronti a spiegarci
che la nostra proposta è semplice demagogia, che non è realizzabile, che siamo
solo dei residui ideologici del Novecento, accaniti estremisti, attaccabrighe
della politica, che la pensione a 60 anni non è sostenibile dal bilancio
statale, che produrrebbe un enorme deficit, che le finanze dell’INPS sono già
al limite, che non ci sono le risorse e così via con altre simili panzane.
Per
questi signori, la realtà comincia alla prima pagina del bilancio dello Stato e
termina all’ultima pagina; per i nostri riformisti, Piazza Montecitorio e
Palazzo Chigi sono il centro dell’universo e per i tecnocrati UE il sole ruota
attorno alla Banca Centrale di Francoforte. In realtà sono solo contabili da
quattro soldi. Così come nel Medioevo, i prodotti della terra erano concepiti
come una manifestazione della bontà divina, oggi, questi signori concepiscono
la pensione come una somma di denaro da far uscire dal bilancio pubblico, dalla
fiscalità generale (sistema retributivo) o dai contributi tesaurizzati degli
occupati (sistema contributivo) o da
entrambi (sistema misto). Quindi ricercano le risorse per le pensioni nei
bilanci dello Stato e della previdenza sociale, questa è la loro angusta, limitata
realtà.
Invece,
noi guardiamo fuori dagli uffici e dai libri contabili, noi guardiamo nel mondo
della produzione materiale e dei rapporti di produzione tra gli uomini e tra le
donne, perché la pensione è una quantità di beni e servizi che il pensionato
consuma per mantenersi in vita nelle condizioni socio-culturali storicamente
determinate. Oggi, in tutto il mondo, esistono le condizioni tecnologiche,
produttive e sociali per produrre i beni e i servizi funzionali alla
sussistenza fisiologica e culturale di tutti gli e di tutte le, oversessantenni
del mondo. Ma queste condizioni, queste straordinarie potenzialità produttive
sono soffocate dai rapporti capitalistici di produzione. Centinaia di milioni
di lavoratori capaci di produrre quei beni e quei servizi, sono costretti alla
disoccupazione, perché nessun capitalista è capace di impiegarli per un congruo
profitto. Macchinari e impianti tenuti spenti o sottoutilizzati, interi
stabilimenti industriali con le più moderne tecnologie sono chiusi, in attesa
di un improbabile rialzo del saggio di profitto. Materie prime ferme nei
magazzini. Non si produce, non per la mancanza di fattori produttivi, ma per la
insufficiente prospettiva di profitti determinata dalla sovraproduzione verso
cui il capitalismo tende costantemente per sua stessa ineliminabile natura. Nel
capitalismo non si produce in presenza di un bisogno: si produce solo in
presenza di un profitto. Esistono le forze produttive per soddisfare tutti i
bisogni dell’umanità, ma queste forze produttive sono costrette all’inattività
perché sono controllate da un manipolo di industriali e di banchieri, in ultima
analisi agenti dei loro capitali in cerca di profitti. Non solo. Da una parte
la fame, dall’altra ogni giorno i supermercati distruggono tonnellate di frutta
e verdura per tenerne alti i prezzi di vendita; e allevatori distruggono litri
e litri di latte per la stessa ragione speculativa e la UE macella mucche per
impedire che si produca troppo latte. Non troppo per i bisogni dell’umanità, ma
troppo per le ragioni del profitto. Questo è il capitalismo nella sua fase
irreversibile di putrefazione.
Il
capitalismo è stato il sistema più rivoluzionario di tutta la storia, ha
sviluppato le forze produttive più di ogni altro sistema economico precedente e
ha avuto il merito storico di creare un’unica economia mondiale. Ma facendo
questo, ha prodotto forze produttive che non è più in grado di
controllare, e tutto il suo potenziale
produttivo può tradursi in un potenziale distruttivo contro la natura, contro
l’umanità e la sua cultura. Da tempo il capitalismo è entrato nella sua fase
senile e deve essere sostituito da un sistema superiore. O il proletariato
libera le forze produttive dalle catene capitaliste e apre una nuova fase
storica di progresso umano, oppure queste catene capitaliste impedendo
l’ulteriore sviluppo delle forze produttive, ricacceranno sempre più l’umanità
nella barbarie.
Il
bivio storico tra rivoluzione e reazione è il bivio storico tra economia
pianificata e anarchia del mercato, tra proprietà sociale e proprietà privata
dei mezzi di produzione e di scambio.
A
questo punto, tornano i nostri professori liberali e i nostri riformisti.
Fallita la lezione di realismo, ora si arrangiano invocando la morale. Ci
accusano di attentare alla libertà di impresa, al libero mercato. Certo,
attentare alla libertà di impresa e al libero mercato, è la nostra ragione di
vita, la nostra missione storica. Noi vogliamo distruggere la libertà di
impresa grande, media e piccola che costringe all’inattività milioni di
disoccupati in tutto il mondo, e vogliamo distruggere il libero mercato che
impedisce a milioni di famiglie di andare al mercato a fare la spesa, di
accedere alle migliori cure sanitarie e di avere la migliore istruzione.
Smontato
il loro preteso realismo economico e
respinta al mittente la loro morale interessata, ai nostri liberali non resta
che la stanca litania con cui negli anni Novanta i filistei di ogni latitudine
si sono costruite carriere accademiche, editoriali e politiche: “il comunismo
ha avuto la sua occasione e ha fallito”. Per questi signori la dialettica è
solo la capacità di parlare bene, quindi facciamola semplice e veloce. Nel
corso di tutta la storia umana, il comunismo è esistito soltanto nelle società
primitive matriarcali che gli studiosi hanno scoperto durante la seconda metà
del XIX secolo. Il successivo sviluppo delle forze produttive dissolse quelle
società e diede origine alla divisione in classi. Nel corso del Novecento molti hanno tentato
l’assalto al cielo, nessuno lo ha toccato. In Russia non c’è mai stato il
comunismo, come in nessun’altra parte del mondo. La rivoluzione russa rimase
isolata per la mancata rivoluzione in Germania e in Italia: il proletariato
russo isolato arretrò e una casta burocratica parassitaria nata dalla
rivoluzione usurpò al proletariato il potere politico e la gestione democratica
dei mezzi di produzione. Il capitalismo fu estirpato, ma la transizione al
socialismo rimase bloccata da questa dinamica reazionaria burocratica. Lo Stato
operaio divenne
uno
Stato operaio burocraticamente degenerato e la burocrazia che assunse il
controllo della pianificazione produttiva reintrodusse i rapporti borghesi di
distribuzione all’interno di un sistema economico a industrialismo di Stato.
Forte di questi rapporti borghesi di distribuzione, la burocrazia nei decenni
successivi divenne sempre più privilegiata fino a restaurare il capitalismo
divenendo nuova borghesia.
Il
comunismo non è il passato di una nazione: è il futuro dell’umanità.
PARTITO
COMUNISTA DEI LAVORATORI – sezione di
PISTOIA
Nessun commento:
Posta un commento