La
straordinaria mobilitazione di massa che attraversa da sette giorni la
Turchia continua a tenere il passo. Un regime apparentemente stabile, al
potere da oltre un decennio, si trova sfidato per la prima volta sul
terreno della piazza.
Come
spesso accade nella storia, la brusca svolta è stata accidentale: la
difesa di un parco pubblico da una speculazione affaristica, commerciale
e immobiliare. Ma la rivolta che la difesa del parco ha innescato ha
assunto immediatamente una valenza politica enorme. La brutale
repressione poliziesca dei giovani di piazza Taksim ha fatto da stura
alla ribellione di massa contro il regime islamico di Erdogan in tutte
le principali città turche. La parola d'ordine unificante è ovunque
“Erdogan dimettiti”.
La
mobilitazione muove da istanze politiche democratiche, non da
rivendicazioni sociali. La bandiera comune è la denuncia della brutalità
poliziesca, ma anche l'opposizione alla politica di islamizzazione
progressiva della società turca ( imposizione strisciante del velo alle
donne, divieto del rossetto per le pubbliche dipendenti,
criminalizzazione del bacio in pubblico, divieto del consumo di alcolici
oltre le 10 di sera..). Non a caso i giovani tra i 20 e i 30 anni, ed
in particolare la gioventù femminile, sono i protagonisti centrali della
mobilitazione. Come fu inizialmente nelle sollevazioni arabe di Tunisia
ed Egitto.
Questa
mobilitazione ha raccolto attorno a sé un sostegno attivo socialmente
eterogeneo. Al fianco dei giovani studenti, precari, disoccupati, si è
schierato un ampio settore di popolazione povera. Ma anche settori di
piccola e media borghesia di formazione laica, spesso oltretutto
emarginati dal clientelismo affaristico del regime. E persino settori di
popolazione islamica di sentimento democratico.
La
classe operaia organizzata non ha ancora fatto irruzione sulla scena, a
differenza che nella Tunisia e nell'Egitto del 2011. Ma il suo
sentimento parteggia per la gioventù. Ieri si è prodotto un fatto nuovo e
di grande importanza: la Confederazione dei sindacati dei lavoratori
pubblici ( Kesk) ha promosso due giorni di sciopero politico contro lo
“stato di terrore” in solidarietà con le manifestazioni
dell'opposizione. E ha invitato altri sindacati ad aderire alla
protesta. Vedremo gli sviluppi. E' certo che un ingresso in campo del
movimento operaio turco potrebbe segnare una trascrescenza
rivoluzionaria della situazione. E' la grande paura del regime.
Ed
è anche la paura degli imperialismi europei e innanzitutto
dell'amministrazione USA: che da un lato temono l'apertura di una nuova
crisi rivoluzionaria in un paese chiave del Medio Oriente ( e in un
contesto regionale già travolto da una profonda destabilizzazione);
dall'altro non vogliono trovarsi spiazzati dagli avvenimenti e dunque
lamentano a futura memoria un “eccesso” di repressione del regime, per
garantirsi uno spazio d'influenza in un eventuale cambio politico in
Turchia. 115 miliardi di interscambio commerciale annuo con la Turchia
sono del resto una buona ragione di preoccupazione.
La
portata degli avvenimenti scuote la classe dominante turca. Il crollo
della Borsa di Istanbul è un buon termometro politico. Il mondo degli
affari ( a partire dai costruttori) teme la crisi al buio di un regime
amico. E che il disordine politico possa compromettere oltretutto.. la
candidatura della Turchia ad ospitare le Olimpiadi del 2020 ( nuovo
gigantesca mangiatoia di profitti).
Le
stesse forze del regime registrano le prime differenziazioni: tra
ministri schierati con la polizia “contro i vandali” e un Presidente
della Repubblica ( Gul)che sente il bisogno di sollecitare il “dialogo”
con la piazza. Non è solo una divisione studiata dei ruoli. E' anche il
primo segno di sbandamento di fronte ad un eruzione di massa improvvisa,
e di incertezza su come fronteggiarla. Le stesse dichiarazioni
contraddittorie di Erdogan, nel giro di poche ore, riflettono questa
realtà.
I
settori politici dell'opposizione sono coinvolti ampiamente nella
mobilitazione o nel sostegno ad essa. In tutte le piazze turche le
bandiere dell'estrema sinistra sfilano assieme alle bandiere del
nazionalismo Kemalista, della socialdemocrazia, dei partiti kurdi, e
delle mille espressioni dell'associazionismo laico e democratico. E' il
riflesso fisiologico della natura democratica della ribellione. Ma è
anche il teatro delle operazioni politiche in corso nell'opposizione. Il
partito nazionalista repubblicano, (sorpreso dagli avvenimenti) cerca
di usare la ribellione come leva di un ricambio politico borghese, in
vista delle elezioni presidenziali del 2014 : e per questo predica
l'opposizione “responsabile” “contro l'estremismo”. Mentre il partito
socialdemocratico, che pur sostiene la mobilitazione, chiede al governo
“moderazione” per evitare di favorire “gli estremisti”. Borghesia
liberale e socialdemocrazia, come sempre, si contrappongono al pieno
sviluppo della stessa rivoluzione democratica. Perchè temono la sua
trascrescenza anticapitalista e socialista.
Il
Partito operaio rivoluzionario turco (DIP)- sezione turca del
Coordinamento per la Rifondazione della IV Internazionale- è sin
dall'inizio in prima fila nella mobilitazione di massa, con le proprie
bandiere e i propri militanti, nel nome di una prospettiva esattamente
opposta: sviluppare sino in fondo la mobilitazione democratica per
saldarla a un programma di classe anticapitalista di rivoluzione
sociale. Per un governo dei lavoratori che spazzi via assieme al regime
di Erdogan quel capitalismo turco che si è riparato dietro di esso per
lucrare affari e ricchezze, contro il mondo del lavoro e la gioventù.
Per
questo il DIP è l'incarnazione stessa di quello spettro “estremista”
evocato da governo islamico, nazionalisti borghesi, socialdemocratici
turchi. E' un suo merito.
Di
certo la costruzione e sviluppo della nostra organizzazione in Turchia
può compiere un passo avanti importante negli avvenimenti in corso.
Nell'interesse generale del movimento operaio turco e delle stesse
aspirazioni del movimento di massa.
Alla
ribellione di massa e al lavoro rivoluzionario dei nostri compagni
turchi va il pieno sostegno del Partito Comunista dei Lavoratori. Oggi
più che mai, la loro lotta è la nostra.
MARCO FERRANDO
per l'Esecutivo nazionale del PCL
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